#1, 1997: MICHAEL JACKSON — BLOOD ON THE DANCE FLOOR
Numeri Uno, aprile/maggio 1997. MICHAEL JACKSON — BLOOD ON THE DANCE FLOOR
Numeri Uno è la rubrichetta che si occupa di tutte le canzoni che sono finite alla prima posizione della classifica italiana dei singoli, senza discriminazioni ma con effettivo buon gusto. È la cugina di quella americana di Tom Breihan, che è la cugina di quella inglese di Tom Ewing.
È il 1997, e nel 1997 la discografia fa un po’ il cazzo che vuole.
Riesce a farlo così bene che si riescono a vendere palate di dischi di qualsiasi cosa — figuriamoci UN ALBUM DI REMIX di Michael Jackson.
Blood On The Dancefloor è l’inedito deputato a vendere quel disco, raggiunge naturalmente la numero 1, lo fa per quattro settimane di fila tra aprile e maggio, e ha una storia mica male. Copio-incollo da Wikipedia, come fossi un’intelligenza artificiale qualsiasi:
«La canzone nacque da un'idea di Teddy Riley il 6 giugno 1990, dopo che seppe che a una festa alla quale doveva partecipare, ma alla quale non andò a causa del lavoro che doveva fare con Jackson sull'album Dangerous, venne ucciso qualcuno sulla pista da ballo con dei colpi di arma da fuoco. La traccia alla quale Riley ha lavorato quella notte era aggressiva e minacciosa ma non aveva parole, nessun titolo e nessuna melodia.»
Io amo Teddy Riley. Cazzo se lo amo. Ha il drum programming e i rullanti più belli degli anni 90 insieme a Denniz Pop e Max Martin.
(Insertino dovuto su Denniz Pop e Max Martin)
Essendo un figlio dello scadere degli 80 come tutti i bambini della mia epoca sono stato cresciuto a Bim Bum Bam e boyband. Le boyband erano pane di Pop e Martin: dai Backstreet Boys agli NSync era tutta roba loro. La loro formula, che grazie a Dio incontreremo un bel po’ di volte in cima alle classifiche negli anni a venire, era molto semplice e anche molto efficace: prendere le ritmiche dell’America black — dall’r&b delle Tlc al New Jack Swing di Riley e MJ — e montarci su melodie pop, figlie degli Abba (i due sono svedesi) e della melodia math che perfezionano in quegli anni. È evidente per esempio in Everybody la loro tendenza all’inglobare le topline abba-esche, quadrate, armoniche e allo stesso tempo tensive, spaziose e concise — ma su un groove uptempo degno dei dancefloor americani (mamma mia, quante parole straniere: se mi legge Fratelli d’Italia chiama la polizia). In Italia, Everybody, nelle stesse settimane in cui Jackson primeggia, staziona per qualche tempo in Top 10, senza mai però riuscire a sfiorare i piani alti, ma il suo lascito è eterno: per esempio, alle elementari da me, tutte le mie compagne di classe imparano il balletto in corridoio. Ah, la potenza della musica pop. Del resto Everybody è un reset culturale. Sembra un pezzo di Halloween, ma non lo è: è un evento che dà il via a una nuova era, quella del bubblegum pop, che arriverà al suo culmine un paio d’anni dopo. Ci arriveremo, e sarà bellissimo.
Ma, tornando a Riley e Jackson, dopo la loro collaborazione artisticamente riuscitissima — Dangerous è un grande esercizio di stile, classe, coolness e pop applicato al New Jack Swing — tuttavia commercialmente fallimentare per i numeri e le aspettative su MJ, i due ritornano a lavorare sulla traccia, rispolverandola per l’occasione. E se nel 1997 suona come un brano del 1991 è proprio perché lo è: è la naturale prosecuzione di tutto ciò su cui ha lavorato Riley — inventore, a tutti gli effetti, del New Jack Swing — e alla veste che Jackson aveva ben indossato in quel disco.
Blood On The Dancefloor è una lontana cugina di Billie Jean e Smooth Criminal: atmosfere dark, quasi noir, su un tappeto che oggi definiremmo urban. MJ canta di Susie, che viene pugnalata sulla pista da ballo, ma siamo l’Italia e del testo non ce ne frega granché: Blood On The Dancefloor si dimostra perfetta per le radio, per i club, per i fan. Molto meno per la storia della musica. È il singolo di un artista che è uscito dalla sua Fase Imperiale e sta sempre più passeggiando nel tunnel della sua Fase Calante, aggiungendo al catalogo mastodontico proposte senza grandi guizzi e senza grandi orrori; rientra in quel grande calderone di pezzi che finiscono in vetta alle chart grazie a una gigantesca fan base, lasciando però un’eredità abbastanza ristretta e soprattutto bloccando altre grandi canzoni sul gradino più amaro del podio.
Al numero 2, nell’aprile 1997, s’inchioda il primo vero singolo (inedito) solista di Robbie Williams. Old Before I Die è l’antipasto di quello che sarà Williams: divo e anti-divo, pop e anti-pop, britpop, rock and roll, la tradizione di Elvis e il futuro del pop che verrà; è un dito medio ai Take That e alle ballad d’amore — con cui, paradossalmente, Robbie ritirerà su le sorti di una carriera solista partita in salita.
Old Before I Die si avvicina a essere un capolavoro perché solo Williams avrebbe potuto cantare un pezzo così in un’epoca così, con savoir-faire, con coolness, con auto-ironia: «Am I straight or gay?», cibando gli stessi tabloid che gli hanno reso e gli stanno rendendo la vita un’inferno prima del secondo ritornello, fino al glorioso «I hope I live to see the day the Pope gets high»). Old Before I Die è una Some Might Say che non cerca di essere elitista. È per tutti, ma non lo sarà: in Italia si ferma al numero 2, in Uk idem, in Spagna raggiunge la numero 1, ma sparirà dal suo catalogo, affondata dalle sue altre gigantesche hit.
Non ritroveremo più il Re Del Pop, ma fortunatamente ritroveremo Robbie Williams — che poi, è la cosa più vicina al Re Del Pop che gli anni 2000 ci abbiano fornito.
LE PAGELLONE
Billie Jean è un 10.
Smooth Criminal è un 9.
Why You Wanna Trip On Me è un 6.
Everybody è un 10, ma solo perché il limite è il 10.
Blood On The Dancefloor è un 6.
Old Before I Die è un 9.
Some Might Say è un 9.