Numeri Uno è la rubrichetta che si occupa di tutte le canzoni che sono finite alla prima posizione della classifica italiana dei singoli.
Qui trovate l’elenco di tutte le Numero Uno commentate, anno per anno, in continuo aggiornamento.
LA FASE CREPET: LE DOMANDE ESISTENZIALI
Dove sarebbe la musica italiana senza Tre Parole? Tre Parole è mai stata veramente capita fino in fondo? Era un colpo di genio o era una stupidissima filastrocca con pretese altissime?
(Ma soprattutto, dov’era finito Canzonette? A cambiare pannolini, grazie, rieccoci.)
L’INEVITABILE PRESENTE
Nel tempo-spazio in cui viviamo non si fa altro, sul web e nelle conversazioni IRL, che parlare di dove finirà la musica — ma soprattutto dove finiremo noi musicisti, compositori, produttori eccetera — tra qualche anno, con tutto questo proliferare di intelligenze artificiali che si staccano sempre più dalla mediocrità creativa che potrebbe avere chiunque e si avvicinano sempre più a buoni risultati compositivi, allarmando pochissimo gli addetti al settore che non vedono l’ora di sfruttarle per azzerare i costi di produzione, senza tenere in considerazione né le implicazioni etiche né quelle legali, e sempre più gli autori. Ora, se dovessimo chiedere a un’intelligenza artificiale di scriverci «Un pezzo tiktokkabile» con le paroline giuste e le mossette corrette, probabilmente quella ci restituirebbe qualcosa di peggiore di Tre Parole.
L’INDISCUTIBILE PASSATO
Potremmo, ora, aprire una diatriba, un dibattito, una discussione infinita sul quesito se sia una cosa buona o una cosa brutta, ma il pop è fatto di sfumature, e Tre Parole è, trovo, il classico esempio di canzone travisata, che vuole prendere in giro un certo stilema e finisce per diventarne esempio totale, unico e lampante.
L’intuizione alla base è corretta: prendere l’arrangiamento di Torn, il successo di Natalie Imbruglia, e in quel macromondo costruirci una filastrocca italiana facile facile: dammi tre parole, sole cuore amore (e delle chitarre flanger con mugugni sotto inclusi nel prezzo). (Torn arrivò al successo con Imbruglia, ma la sua era la terza cover che veniva lanciata sul mercato: forse aiutò il video, forse aiutarono i suoi occhioni azzurri, chissà. Comunque, gran pezzo).
(Poi magari ci soffermiamo sul video, sull’uomo ape, eccetera, ma magari anche no).
Quale canzone con tema sentimentale fino al 2001 non faceva rimare l’amore col cuore e ci metteva una spruzzata di sole? Veramente poche. Erano anni facili per gli autori, direbbe qualcuno: verbi all’infinito, verbi al futuro, mai, noi, sai, poi, se vuoi; un rimario di quaranta parole e un unico concetto universale: l’ammmore. (Ci siamo mai spostati da lì? No. Ma sarebbe stupido pensare altrimenti.) Chissà le conversazioni negli studi di registrazione, che all’epoca erano faccende costosissime tra l’altro (ma del resto parliamo pur sempre di un mercato che muoveva ancora milioni di copie nei suoi migliori exploit, vedi i Lùnapop.)
I tormentoni iniziavano a farsi strada tra le radio e il Festivalbar: a partire da quel gioiello di Vamos A Bailar in poi la discografia italiana si era resa conto che nell’estate c’era qualcosa che smuoveva le masse a spendere i propri denari (in lire, e a breve in euro) per i singoli di maggior successo; se poi raccontavano faccende d’amore e la loro spendibilità di espandeva alle spiagge, allora si era fatto bingo.
Per questo quelle tre parole erano tre certezze: mettile e la gente si immedesimerà.
(Con tutto quello che si può voler dire della musica odierna non si può negare che l’evoluzione ci sia stata eccome, dal punto di vista autorale: riuscita o meno, l’esercizio di confrontare i testi degli anni novanta a quelli dell’epoca moderna rende chiaro come un tempo ci si sforzasse mediamente poco. Un processo lungo, lento, a tratti estenuante, ma arriverà il giorno in cui da queste parti affronteremo Soldi, e sarà un bel giorno).
In tutto questo Tre Parole è un successo: riesce a essere meme prima dei meme, riassume un’epoca, un preciso modo di scrivere, raccoglie l’eredità della musica italiana e non la spinge da nessuna parte, anzi, la cristallizza per sempre in uno slogan di facile apprendimento e canticchiabilità.
Valeria Rossi ha una penna, nel bene o nel male, molto precisa. Sceglie parole poco canoniche e mischia strofe a tratti criptiche a un ritornello generazionale. Tre Parole non è al 100% irritante, come in molti all’epoca avranno pensato, o forse non lo è con la prospettiva di oggi essendo sprovvista di hi-hat in trentaduesimi e 808 distorte, ma è oggettivamente una canzone brutta, che è rimasta connotata nella sua epoca (e lo dimostrano i 5 milioni di ascolti che ha su Spotify: non manca pressoché a nessuno, neanche agli amanti dell’amarcord). Perché il suo testo è palesemente un tentativo di artisticità che non viene sorretto né dal ritornello, né dall’arrangiamento, dai pad, dai fiati che invadono il ritornello negli inserti, insomma, da nessuna parte. (Un mio amico al «Sono le istruzioni per muovere le mani» avrebbe risposto qualcosa di simile a «Sì, te le muovo in faccia»). La faccenda non è tanto in Tre Parole in sé, quanto più in quello che le è successo intorno in quel periodo, e alla rivoluzione pop che verrà a breve, fortunatamente, a invadere le chart italiane.
(No, non stiamo parlando di Boyband dei Velvet, eterna seconda di quell’estate 2001, band incredibilmente travisata come vi confermerà l’ascolto di un disco incredibilmente sottovalutato quale 10 Motivi).
LE PAGELLONE
Tre parole è un 5.
Boyband è un 8.