#1, 1997. THE VERVE — BITTERSWEET SYMPHONY
Numeri Uno, agosto 1997. THE VERVE — BITTERSWEET SYMPHONY
Numeri Uno è la rubrichetta che si occupa di tutte le canzoni che sono finite alla prima posizione della classifica italiana dei singoli, senza discriminazioni ma con effettivo buon gusto. È la cugina di quella americana di Tom Breihan, che è la cugina di quella inglese di Tom Ewing.
Quante sono le probabilità che due Numeri Uno di fila del mese di agosto siano a) tutto tranne che brani estivi b) brani le cui fondamenta sono sample?
È quello che accade nel 1997, quando l’Italia decide di rendere ancora più ricco Sting e I’ll Be Missing You — che aveva regnato per settimane e ritornerà prima per altre due — viene detronizzata da uno di quei pezzi che per davvero e non solo-grazie-a-google ci ricordiamo e sono rimasti non solo nella storia, ma anche nel dna musicale ancora oggi: Bitter Sweet Symphony.
Negli anni mi sono più volte chiesto spesso se Bitter Sweet Symphony avrebbe avuto lo stesso successo senza il video in cui Ashcroft prende e travolge tutto ciò che incrocia la sua strada. Mtv era quasi tutto, nel 1997. Non credete alle favolette che i ragazzi, bambini, adolescenti tornassero a casa per guardare i cartoni su Italia Uno: sì, chiaro, a tutti gasava Holly e Benji, perché tutti volevamo diventare calciatori da adulti, ma quei cartoni non ci hanno mai insegnato veramente la lealtà: era roba da giapponesi; quando poi ci ritrovavamo al campetto, col cazzo che c’era la solidarietà che ci propinavano per mezz’ora al giorno. Mtv era un’altra cosa. Era su Mtv che ci formavamo. Era lì che imparavamo a capire chi eravamo, cosa saremmo potuti essere, che esseri umani avremo potuto azzardare a diventare. E lo eravamo grazie a due fattori: i vj e i video. E su Mtv il video glorioso di Bitter Sweet Symphony passava spesso, e le statistiche, le copie vendute, gli stream non potranno mai descrivere con precisione geometrica un dato incontrovertibile: quando passavano questo video, io non cambiavo mai. (Non che avrei cambiato canale, claro, manco sotto tortura avrei fatto a meno di quell’intrattenimento di video 24/7, un YouTube ante-litteram che sceglieva per te sempre e solo il meglio del mercato, a seconda dell’orario). C’era qualcosa di magnetico in quell’incedere menefreghista, estremamente britannico, cugino degli Oasis e pro-nipote dei Sex Pistols, ma lontano dall’esserne una pallida imitazione. I Verve erano i Verve. Ashcroft e la sua penna erano sì parte del calderone Britpop, ma erano unici.
All’Italia piace(va) il Britpop. Lo garantiscono le chart, persino quelle dei singoli, solitamente e storicamente più votate a eleggere le hit passeggere, che avevano visto l’arrivo dritto in vetta del non-più-formidabile-singolo-di-sempre-degli-Oasis qualche settimana prima, così come lo garantisce il 2023, con il pienone che ha appena fatto Liam Gallagher a Milano. (Spoiler: gli Oasis si sono sciolti, e a oggi ancora non sono tornati insieme).
(Curioso notare che Bitter Sweet Symphony raggiunge la #1 in Italia e non in Uk: arriverà solo seconda, mentre Drugs Don’t Work riuscirà nell’impresa.) (Che pezzo è Drugs Don’t Work? E che disco era Urban Hymns? Servirebbe un altro Substack solo per parlarne. Ma andiamo avanti.)
Bitter Sweet Symphony deve tanto — tantissimo — all’unico che non ci ha guadagnato un euro: The Last Time è un brano dei Rolling Stones, sì, ma è la versione riarrangiata dalla The Andrew Oldham Orchestra per un disco tributo che fa da fondamenta al più grande successo dei Verve. Le tre canzoni sentite di fila mostrano il genio degli autori — e degli arrangiatori — e come ognuno di loro ha preso una scintilla e l’ha interpretata a modo suo.
Andrew Oldham e David Whitaker (che ne ha arrangiato gli archi), dicevamo, non hanno visto un euro; la storia va così: Ashcroft vuole fare un cosa hip hop, e quindi prendere un sample; scrive il pezzo su questo arrangiamento, usando un pezzo di strumentale come tappeto, looppandola e creandoci sopra melodia e testo, finendo inconsapevolmente a definire un’epoca nel tentativo di fare — parole sue, giuro — «una roba alla Morricone»; la band / la label cercano di ottenere i diritti, fallendo; l’ABCKO Records, di proprietà di Allen Klein, vecchio manager dei Rolling Stones, che detiene i diritti degli Stones del catalogo anni 60, gli nega i diritti, anzi, porta in tribunale Ashcroft e vince — chiedendo e ottenendo il 50% dei diritti editoriali. Una volta che il singolo esce e inizia a vendere, però, stando ai racconti dei membri dei Verve, Klein sa di avere leverage e quindi chiede e ottiene il 100% dei diritti editoriali. Ergo: ai Verve, manco un euro per l’apporto artistico dato al pezzo (anzi, a Ashcroft vanno 1000 dollari). Tutti i diritti da songwriter tornano a Jagger e Richards; i diritti editoriali, a Allen Klein. (Nel 2018 gli Stones, dopo la morte di Klein, ridanno i diritti a Ashcroft. Un lieto fine — vabbè, eccetto per Oldham e Whitaker.)
I Verve non sono di Liverpool, come i Beatles, e non sono di Manchester, come gli Oasis. Sono di Wigan, un paesino nel nulla del nord dell’Inghilterra: working class, proteste e pinte di birra a colazione. Cosa rende il pezzo epico è difficile condensarlo o riassumerlo. L’atmosfera, l’armonia, il video, la voce di Richard, certo — ma soprattutto il testo. È deprimente, è crudo, è reale. È quello che passa una generazione, e nel racconto di Ashcroft non ci sono barriere. Il suo disagio, tipicamente britannico di quel periodo, ricorda una versione condensata delle grandi proteste post-Thatcheriane, nonché la letteratura del Regno Unito dell’epoca (su tutti Irvine Welsh, volgarmente noto come quello di Trainspotting).
«Tryna make ends meet, you're a slave to money then you die» è un manifesto nel manifesto. È la disperazione d’oltremanica, è allo stesso tempo Schopenhauer e Martin Amis, è rock e come tutte le cose estremamente rock è anche involontariamente dannatamente pop. Ma Ashcroft non si ferma, non lo frena niente e nessuno — nel videoclip come nella vita e nella musica.
Prima e ovviamente unica #1 dei Verve nella chart Fimi, ma pietra miliare degli anni 90, del periodo d’oro di Mtv, e soprattutto della musica Britpop.
LE PAGELLONE
Bitter Sweet Symphony è un 10.
Drugs Don’t Work è un 10.
The Last Time è un 7.