#1, 2001: JENNIFER LOPEZ — LOVE DON'T COST A THING
Numeri Uno, gennaio 2001. JENNIFER LOPEZ — LOVE DON'T COST A THING
Numeri Uno è la rubrichetta che si occupa di tutte le canzoni che sono finite alla prima posizione della classifica italiana dei singoli.
Qui trovate l’elenco di tutte le Numero Uno commentate, anno per anno, in continuo aggiornamento.
Numeri Uno è la cugina di quella americana di Tom Breihan, che è la cugina di quella inglese di Tom Ewing.
È da sempre che la musica pop, per durare, deve necessariamente passare dal branding. Gli anni 2000 rappresentano con precisione geometrica il momento in cui il branding inizia a diventare il centro di tutto.
È o non è Jennifer Lopez la prima influencer prestata alla musica che l’epoca più recente della musica pop abbia visto?
Jennifer Lopez fa tutto quello che fanno le starlette moderne — cioè: saltare da una sponda all’altra di quella faccenda che un tempo ci potevamo accollare il lusso di chiamare arte, spaziando dal cinema alla “scrittura” di libri alle canzoni —, ma lo fa vent’anni prima di tutte le altre, spingendo l’acceleratore nel caso della musica sull’autobiografia (e non parlo di quando fece scandalo facendo un’assicurazione milionaria sul suo fondoschiena, perché quello purtroppo è un aneddoto che non ha una canzone a sé legata.)
Love Don’t Cost A Thing è la sua prima #1 in Italia e in Uk. E è una hit mondiale.
UN PASSO INDIETRO COME FOSSIMO A UNA LEZIONE DI ZUMBA
Partita dal Bronx, partita come ballerina, poi come attrice, esplosa con Out Of Sight con George Clooney, Lopez deve la sua carriera musicale al biopic su Selena (la cantante sudamericana sul punto di esplodere in tutto il mondo e poi uccisa da un fan). È qui che le torna la voglia di cantare, e è qui che Tommy Mottola, boss italo-americano della Sony la nota e decide che vuole firmarla e farla cantare in inglese. Mottola sa giocarsi le sue carte: la invita a un incontro in cui sono presenti Babyface, Rodney Jerkins, Walter Afanasieff, Cory Rooney (tipo i più forti produttori dell’epoca). La convince che diventerà una star, e la (li?) mette al lavoro sul disco di debutto, On The 6. Il disco è un successo già dal titolo: working class girl, il 6 era il metrò che Lopez prendeva dal Bronx a Manhattan. If You Had My Love, Waiting For Tonight, Let’s Get Loud: il lavoro fatto sul disco è impressionante, giudicando anche solo da questi tre singoli, che aiutano J.Lo a diventare una star del pop mondiale nonostante le limitate capacità canore (il rumor sui forum e nei corridoi delle case discografiche è che non canti veramente lei sui dischi, ma anzi che sia estremamente aiutata da coriste e che la sua voce sia spesse volte un mix tra il suo timbro e quello di session singer chiamate apposta a cantare i brani dove Jennifer non arriva. Gossip o realtà? Fate voi. C’è un video qua sotto per gli aficionados alle cospirazioni.)
A differenza del passo falso del ritorno di Ricky Martin (che potete leggere qui sopra), però, pare che Mottola e Sony abbiano imparato dai propri errori, e confezionano per J.Lo un comeback come si deve. Via i sound fortemente latini, entrino i blip blop che tanto hanno giovato alle Destiny’s Child in USA, e ecco che Love Don’t Cost A Thing diventa il marchio di fabbrica di Lopez: un r&b moderno, un groove buono per le discoteche come per le radio, pieno di synth che spopolano in quel periodo e rimbalzano tra il vocal e la ritmica programmata; vocalmente, Lopez tenta dei mezzi virtuosismi per far vedere che sa cantare, ma s’intuisce il sudore sulla fronte del fonico che le avrà dovuto sistemare i miliardi di take necessari per compare la traccia di voce lead. Per non parlare del clip: video costosissimo e look glamour, estetica quasi da video rap, primi piani da popstar e coreografie figlie del post-Michael Jackson con un green screen tremendo, borse e gioielli che volano — perché sì, c’è un messaggio ripetuto fino all’esasperazione: l’amore mica si compra, bello. Non voglio i tuoi soldi, pure fossi al verde il mio amore non costa niente. Ma tu non capisci, non capisci, altri modi di dirti che non capisci e che ora me ne devo andare. (Capirete da questa parafrasi perché avessi 8 in italiano al liceo, nonostante una professoressa che detestasse i maschi). È il cuore che conta, per Jennifer. Pare che il brano sia stato pensato come una sorta di diss verso Puff Daddy, suo ex fidanzato dell’epoca, che già abbiamo incrociato ai tempi di I’ll Be Missing You, per la gioia della SIAE di Sting.
(Se ve lo siete perso, siamo qua apposta:)
Love Don’t Cost A Thing, seppur lunga per gli standard moderni, rimane un buon pezzo pop — non tanto per la vocalità di Lopez, quanto più grazie alla sua scrittura e alla produzione. Non è un brano che ha lasciato particolarmente il segno, ma con la lente d’ingrandimento che ci fornisce il presente non è neanche quello il punto. Vent’anni dopo la domanda «Chi è Lopez? Un’attrice che canta? Una cantante che recita? Una pre-Kardashian? Un’affamata di fama?», visto lo scenario della stardom attuale ha poco valore: Jennifer Lopez era sì una figura ibrida e discutibile che faceva tante cose, forse senza eccellere in nessuna di queste — ma quantomeno le faceva senza vendere cremine o integratori.
LE PAGELLONE
Goodnight Moon è un 7.
If You Had My Love è un 8.
Waiting For Tonight è un 8.
Let’s Get Loud è un 7.
Love Don’t Cost A Thing è un 8.
I’ll Be Missing You è un 9.
In qualità di fratello, dissento fortemente dal voto a "Let's Get Loud"!