Numeri Uno è la rubrichetta che si occupa di tutte le canzoni che sono finite alla prima posizione della classifica italiana dei singoli.
Qui trovate l’elenco di tutte le Numero Uno commentate, anno per anno, in continuo aggiornamento.
E voi di che Lollipop eravate innamorati?
Certi fenomeni non sempre sono rispecchiati dalle classifiche. Le Lollipop sono uno di questi. Non che quattro settimane al vertice siano poche, ma non riescono a raccontare con precisione quella che fu la Lollipopmania di quell’anno (un po’ come l’unica settimana alla #1 di 50 Special non riuscì a raccontare, nel 1999, la grandezza dei Lùnapop, che naturalmente ebbe dimensioni ben più grandi e assai differenti — lo dico prima che qualcuno su questo bizzarro sito internet si prenda la briga di scrivermi ma come osi paragonare i Lùnapop alle Lollipop, screanzato, ti tolgo l’iscrizione vengo a casa e ti meno).
(Te l’eri persa, 50 Special? Ecco a te.)
LI CAZZI MIA MIA MIA MIA
Il 2001 è un anno di dualismi, per me: la terza media, il disinnamoramento dalle compagnucce di scuola, l’innamoramento del punk, i pomeriggi passati in sala prove a scrivere canzoni indecenti in un inglese stentato, un sacco di chemioterapie — e quindi un sacco di necessità di distrazione: un anno tragico, ma in fin dei conti come tutte le cose tragiche, se le sai prendere, anche quasi divertente. Il giorno dell’uscita del singolo di Down Down Down lo vivo con spasmodica attesa, sia perché è mercoledì e il giovedì io faccio le chemio, e quindi mi è concessa una sorta di libera uscita che sfrutto fiondandomi nei negozi di dischi; sia perché il battage pubblicitario che a fine anni novanta equivale a niente meno che un lavaggio del cervello dello spettatore tv.
Io credo di averle amate tutte, a rotazione, anzi: tutte tranne una, ma se mi metto d’impegno e faccio digging nelle memorie adolescenziali so di avere amato Marcellina e Marta più di tutte: una perché somigliava a Sportò Spice, l’altra perché somigliava a Jennifer Lopez.
(Oh, casualità! Su Canzonette abbiamo già incrociato sia le Spice che JLO, e quindi: te le eri perse? Ecco a te.)
Il motivo per cui da sempre funzionano le band fatte di ragazzi e ragazze è forse stata riassunta meglio di tutti dagli autori di How I Met Your Mother, e messa in bocca a Barney Stinson con l’Effetto Cheerleader — tanti ragazzi o ragazze tutti insieme — si dà un colpo d’occhio non indifferente: è difficile non innamorarsi del complesso, e in più ognuno troverà qualche membro specifico di cui invaghirsi e ossessionarsi e riempiersi la cameretta di poster. (Sì, Stinson in How I Met Your Mother la metteva giù in modo più brutale, forse borderline se letto con la lente d’ingrandimento di oggi, ma qui tutto sommato siamo dei signori). (Sì, ho usato due volte i due punti, ma giuro su Philip Roth che lo facevo da prima di leggere Piperno).
Si potrebbe dire, ingenuamente, che l’Italia non sia poi un paese così machista tra fine novanta e inizio anni zero, data la quantità di donne alla Numero Uno — tra Spice Girls, Jennifer Lopez, All Saints, Shivaree, Madonna, Paola&Chiara — che abbiamo incrociato in questi anni; certo, toccherebbe negare che tutte queste artiste siano in realtà rivolte prettamente a un pubblico adolescenziale, e quindi incapace di quel tipo di sessismo inconsapevole che permea il maschio italiano in piena epoca di berlusconismo.
Non per rimarcare la fenomenologia dei progetti per i teenager, che più volte abbiamo incrociato — dai Backstreetboys ai 5ive a Britney —, ma la ricetta tende a essere sempre la stessa: un gruppetto di bellezze con una qualche sorta di talento o carisma per compensare, coreografie efficaci o effetti speciali per compensare, e in cima alla torta una manciata di canzoni accattivanti — a volte addirittura iconiche. Basta questo per creare le code davanti ai negozi di dischi, e far sì che migliaia di giovani si ritrovino ammaliati di fronte alle vetrine che mettono in bella vista i cd e i cartonati degli idoli del momento (so che sembra improbabile oggi, ma nel 2001 giuro che succedeva così: io ero uno di loro).
Nel caso delle Lollipop, la band viene composta attraverso il primo esperimento italiano che ibrida un’idea di talent show ante litteram a scene che potrebbero corrispondere più a un reality. Popstars, condotto da Daniele Bossari, è un bizzarro antenato di X Factor e Amici, che s’imporranno però sul nostro mercato a fine decennio, e è l’unico tra tutti i suoi successori che generi un progetto quantomeno rilevato dalle classifiche, a differenza di Operazione Trionfo (da cui uscì Federico Russo, che però fa tutt’oggi un altro mestiere), e della seconda stagione di Popstars stesso (le Lucky Star). Nel 2001 l’industria musicale ha un rapporto bizzarro e controverso coi talent, e lo avrà ancora per qualche anno, quando si renderà conto che ai ragazzi che stanno mesi e mesi in televisione basta confezionare un EP e distribuirlo nei negozi per ottenere un progetto a costo promozionale pressoché nullo e una fan base già vasta e testata. All’epoca di Popstars vengono ancora guardati come un mostro strano, i talent, un esperimento bizzarro che però è un’ottima distrazione dal caso Napster e dall’internet che inizia a togliere sempre acquirenti di dischi formando una generazione che ha fatto suo un credo ben preciso: la musica non si paga. Si scarica.
È in questo contesto che Popstars gira l’Italia cercando le cinque che andranno a formare le future Lollipop, per poi trovarle in Dominique, Marcella, Roberta, Veronica e Marta. Assemblate secondo la regola aurea delle girlband, dove ognuna ha un suo ruolo (la sexy, la sportiva, la diva…), e l’unica richiesta di fondo era che avessero un carattere ben specifico, un look quantomeno inquadrato a sufficienza da poter essere amplificato da un qualche stylist, e una voce pressoché riconoscibile e lavorabile in post-produzione da fonici il cui sudore sulla fronte è, talvolta, ancora percepibile dai dischi messi in commercio. È marketing, è matematica, non c’è magia nera: è la macchina del pop, non ci sono colpe o scandali. Il problema di fondo è che l’Italia ha sempre detestato le band pop made in Italy, e sempre accolto a braccia aperte quelle straniere.
E allora com’è che le Lollipop riescono a funzionare?
La narrazione è, da sempre, un’arma fondamentale nel racconto di un progetto pop. E Popstars, in questo, riuscì — seppur goffamente, riguardando gli spezzoni dell’epoca — a appassionare un sufficiente numero di teenager e fare in modo che si mobilitassero per fiondarsi nei negozi di dischi a comprare Il Singolo D’Esordio. Per di più, udite udite, in inglese (forse perché suona più cool, forse in modo da non dover ritoccare parti di testo potenzialmente peccaminose, come «I'm goin' down down on my knees»).
Il piano marketing è tanto diabolico quanto geniale: in una sorta di Grande Fratello, le ragazze vengono costrette a convivere per una trentina di giorni sotto lo stesso tetto, venendo riprese 24 ore su 24, e la finalissima di Popstars viene mandata in onda la sera prima dell’uscita del singolo. Che viene presentato a fine puntata. C’è del mestiere, va detto.
[Avete sudato abbastanza: eccovi Down Down Down].
SÌ MA ORA BASTA PARLACI DELLA CANZONEEEEEEEEEE
Il video è oggettivamente una perfetta introduzione della band: primi piani, sospiri, stacchi, movenze sexy: al limite della parodia, essendo passati ormai cinque anni da Wannabe, ma estremamente funzionale. Dopo venti secondi di atmosfere e chitarre acustiche simil Max Martiniane (vedi alla voce I Want It That Way), parte incredibilmente la modernità. La 2-step in Italia non l’aveva ancora presentata nessuno, e fino all’arrivo del Dio Della Modernità in questa landa di ipocriti tradizionalisti perbenisti con l’orecchio sempre e solo sul passato, Down Down Down rappresenta la massima espressione di modernità che il pop italiano abbia da consegnare ai suoi ascoltatori. Down Down Down è, né più né meno, una versione 2-step di (You Drive Me) Crazy di Britney Spears. Ma è ben fatta, ben prodotta, ha un rullante oggettivamente molto bello, e tutto quello che serve al posto giusto. Le voci filtrate nella strofa due? Pura avanguardia. E, se fosse voluto, il fatto che tutti i «Down, down, down, down» (che sono sempre quattro, ma nel titolo sono tre) vadano a livello di note sempre più su, in un climax che arriva a fine ritornello in totale antitesi con la parola stessa, rappresenta un bell’episodio di songwriting. Certo, siamo di fronte a un pastiche di sonorità e parole tipiche del vocabolario dei progetti teen pop di fine anni novanta, e il rimario sembra quello di Max Martin: fire, desire, higher, stronger, etc; ma se stacchiamo l’idea del progetto dalla qualità del prodotto, questa è sorprendentemente alta.
Se vogliamo fare i fenomeni, c’è pure un richiamo a quel gioiello di French touch che è Music Sounds Better With You degli Stardust, 1998):
Inutile dire che Down, Down, Down sbanca la classifica dei singoli e si prende tutto marzo e una settimana di aprile per sbaragliare la concorrenza; inutile anche dire che Popstars, il disco d’esordio del quintetto, floppa a livello di vendite così come i due singoli successivi che non posterò per non tediarvi e per non dovermi rimangiare tutte le belle parole spese per la produzione di questo singolo, così che la WEA / Warner decide di spedire il gruppo a Sanremo, con il loro esordio in italiano. Inutile dire che non andrà come l’esordio in italiano di Elisa che abbiamo appena incrociato da queste parti, ma in maniera nettamente diversa: un diciannovesimo posto e una performance tra le più disastrose che la memoria ci consenta di ricordare. (A onor del vero, Batte Forte è forse un bop persino più grande di Down, Down, Down. Che rullante. Un uptempo a Sanremo? Che avanguardia.)
Ora, come è evidente dalla performance sanremese, i limiti del progetto sono sempre stati quello che intelligentemente nei corrispettivi cugini sia in Uk che in USA hanno sempre fatto di tutto per proteggere: che il playback ti sia amico. Nonostante il boost sanremese, Batte Forte raggiungerà al massimo la #9 dei singoli, e la band verrà droppata da Warner al seguito del secondo album totalmente passato inosservato. Del resto, alla sua uscita, l’Italia era già andata avanti da un pezzo. E al futuro glorioso che aspettava il belpaese ci arriveremo tra poco.
BONUS TRACK 1:
Memorabile è anche questa esibizione al Festivalbar, dove un autore palesemente ubriaco scrive i testi di presentazione — fortunatamente qui presenti — e un altrettanto ubriaco cameraman riesce a non inquadrare nemmeno una volta per tutto l’intro il membro della band che sta cantando. Pura poesia, pura nostalgia.
BONUS TRACK 2:
L’internet è un posto incredibile, che ti riporta a galla ricordi sommersi nel cestino dell’esistenza — e dunque, ecco il video delle finaliste (tra cui le future Lollipop) che registrano le parti del singolo Down Down Down e parallelamente vengono cazziate dai produttori.
LE PAGELLONE
Down Down Down è un 8.
Batte Forte è un 8.
I Want It That Way è un 10.
(You Drive Me) Crazy è un 9.
Music Sounds Better With You è un 10. Anche il suo video.