Numeri Uno è la rubrichetta che si occupa di tutte le canzoni che sono finite alla prima posizione della classifica italiana dei singoli. È la cugina di quella americana di Tom Breihan, che è la cugina di quella inglese di Tom Ewing.
QUI trovate l’elenco di tutte le Numero Uno commentate, anno per anno, in continuo aggiornamento.
Ci sono canzoni che cambiano il corso della storia della musica, e quasi sempre parte tutto da un incidente. Lo stesso vale per certe invenzioni.
Questa è la storia di come sia un’invenzione che una canzone scaturite da una fortuita serie d’eventi abbiano portato a modificare in modo eterno il corso della musica leggera (e non) moderna.
Perché la storia di Believe di Cher è anche la storia dell’Autotune, e l’Autotune è la scoperta dell’America per la musica dagli anni 2000 in poi.
Ma andiamo con ordine.
Partiamo da Cher.
La carriera di Cher a fine secolo era (data per) finita.
Figuriamoci se qualcuno si sarebbe mai aspettato che arrivasse alla #1 in tutto il globo terracqueo, a cinquantadue anni, venticinque anni dopo l’ultima volta.
Cher era esplosa trent’anni prima, quando ne aveva diciannove, insieme a Bono (non quello degli U2, nettamente meno Bono), con I Got You Babe.
I due si sposarono nel 1964, e la canzone è una sorta di risposta a chi diceva che fossero troppo giovani per essere così tanto innamorati. È un 6/8 tipicamente popular degli anni 60, con una metrica ampiamente in zona Bob Dylan, ben prodotta, la cui l’atmosfera semplice e dolce ricalca il duetto e il dialogo tra i due timbri (in cui Cher sovrasta nettamente il compagno, ma tant’è).
Quando dopo qualche hit il successo del duo sembra affievolirsi ecco che la CBS dà alla coppia uno show in tv, The Sonny And Cher Comedy Hour, che si rivela un successone, e dal quale scaturiscono altre hit per Cher.
Fast forward: i due divorziano e le rispettive carriere si frenano.
A fine anni 80, nel 1989, Cher canta If I Could Turn Back Time, scritto da Diane Warren, la stessa penna di I Don’t Wanna Miss A Thing degli Aerosmith, altra #1 nel 1998: poi di nuovo l’oblio.
Nel 1998 Sonny Bono muore durante un incidente di sci.
Rob Dickins, boss di Warner Uk, suggerisce che Cher dovrebbe fare un disco dance per l’Europa (sì: negli anni ante internet certi dischi uscivano solo per certe parti del globo), ma Cher ritiene che non esistano buone canzoni dance. Per questo Dickins va in cerca di canzoni, e inciampa in Brian Higgins, che ha appena collaborato con Kylie Minogue. Higgins ha già iniziato a scrivere Believe, molti anni prima, e manda un tape con svariati demo. Believe, nella sua prima incarnazione, è la canzone #9. (Gli Oasis dicevano «Please don’t put your life in the hands of a rock’n’roll band», e io aggiungo non fate mai fare tracklist a un songwriter). Dickins è folgorato da quel ritornello, gli chiede di completare il brano, e una settimana dopo Higgins torna col brano finito. Dickins lo ascolta, lo richiama e gli dice che il pezzo è terribile. Che non ha reso giustizia alla sua stessa canzone, e quindi la darà ad altri songwriter per concluderla. Dickins fa girare il pezzo, ma per i suoi gusti nessuno scrive delle strofe decenti. E poi, il colpo di scena: Dickins viene licenziato. Questo progetto di Cher sarà il suo ultimo in Warner, quindi si incaponisce ancora di più. Finalmente riceve il brano con le strofe scritte come desidera, sceglie Mark Taylor e Brian Rawling per produrre, e Believe è il comeback single perfetto a tutti gli effetti per Cher — più che mai in quella fase della vita e della carriera. «Do you believe in life after love?» è il claim più preciso che una mente potesse partorire per una cantante di quel calibro con quella carriera e soprattutto quella vita alle spalle; è efficace, pop, e perfetto sulla cassa dritta che i producer programmano nella strumentale.
Fine primo tempo.
(Non trovate straordinaria questa foto che, sgranatura a parte, grida 1998-o-giù-di-lì da tutti i pori?)
Il secondo personaggio che incontriamo è Andy Hildebrand.
Hildebrand da piccolo suonava il flauto (questo per dire che aveva, quantomeno, rispetto ad altre figure che vedremo nel futuro e che altereranno il corso della storia della musica, un passato da musicista), per poi essersi specializzato in ingegneria elettronica. Wikipedia, perché sono troppo pigro per spiegarvelo io, dice che «aveva sviluppato algoritmi complessi interpretativi dei dati generati da un sonar per trovare depositi di petrolio». Di base, aveva trovato l’oro con degli algoritmi che facevano dei test sull’acustica sismica. È noioso, molto, ma altrettanto importante. Perché una sera, durante una cena, la moglie di un amico gli chiede: Andy, perché non inventi una macchinetta che mi faccia cantare in modo intonato? Andy, mesi dopo, sta lavorando a un altro progetto, poi però realizza che la sua expertise può venirgli molto utile per quell’idea, e ci si butta, pensando che alla fine è piuttosto facile applicare i concetti con cui lavora al pitch di una voce.
È così che nasce Antares Technology, è così che nasce la prima versione del plugin Autotune — quello che cambierà la storia della musica mondiale e che causerà grandissime risse tra la vecchia e la nuova generazione.
Usare l’autotune è giusto? È un effetto o è come il doping nello sport? A che serve spaccarsi di lezioni di canto quanto poi c’è la macchinetta che ti intona? (Ora, a onor del vero, non crediate al falso mito che l’Autotune può sistemare chiunque: serve una mezza idea, anche vaga, un rudimento di intonazione affinché l’algoritmo funzioni come meglio sa fare. Certo, più si stona e più si sente la correzione, che poi è diventata un vezzo, uno stilema, un identificativo, un colore pressoché perenne delle derive moderne di rap e pop — ma questo non cambia la realtà dei fatti: non può sistemare proprio tutto tutto). I dibattiti sulla faccenda si sono sprecati, una verità unica o una soluzione che accontentasse tutti non è mai comparsa a galla perché è impossibile, anche solo per un fatto ideologico, che due generazioni distanti si trovino della stessa idea o quantomeno su un terreno comune su qualcosa così fragile come il progresso tecnologico. È così che sistematicamente ogni x settimane assistiamo al format Cantante Di Altra Epoca Che Dice La Sua Contro Chi Usa L’Autotune, a ragione o a torto, indipendentemente.
(Appunto #1: a onor del vero, queste dita hanno il dover di sottolineare come anche negli anni 60 l’amplificatore per la chitarra e i pedalini di distorsione venissero visti come il demonio, giusto per dare un po’ di contesto a quanto sia necessario, spesso, specialmente sulle innovazioni, almeno un ventennio per capirne l’effettivo valore artistico o meno).
(Appunto #2: in un’intervista fatta vent’anni dopo Believe, Hildebrand dirà delle canzoni piene di autotune: «I just build the car, I don't drive it down the wrong side of the road». Diciamo che la sua idea sulla vicenda è chiara, e anche ironica e paradossale.)
Hildebrand negli anni 90 mica si pone tutte queste domande: si limita a inventare il plugin, presentarlo al NAMM e immetterlo sul mercato. È un successo incredibile, e gli studi di registrazione (quelle cose che esistevano decenni fa prima dei dischi fatti coi portatili, e che costavano milioni di dollari) iniziano a comprarlo e, segretamente, a usarlo.
Quando sta lavorando al plugin, Andy è in dubbio se mettere il Setting zero. Suona veramente robotico. A cosa potrebbe mai servire? Poi però i suoi collaboratori lo convincono a inserirlo: alla fine, perché no? Negli anni successivi il manuale dell’Autotune chiamerà il Setting zero «Cher effect».
Torniamo in studio da Mark Taylor e Brian Rawling. Stanno finendo Believe, ma le strofe cantate non suonano mai come vorrebbero. Sono eternamente insoddisfatti. C’è qualcosa che manca nella voce di Cher. Provano e riprovano svariati effetti. Cher è annoiata, e decide di mettere su un disco che ha comprato poco prima, di Andrew Roachford. In un brano c’è dell’elettronica — un vocoder, nello specifico — e Cher suggerisce di provare qualcosa del genere, meccanico.
(Il vocoder è una delle armi migliori di gente come i Daft Punk — che riposino in pace: noi li abbiamo celebrati qui — come abbiamo avuto l’onore di vedere qua, in una settimana in cui l’Italia si è illuminata di French touch).
Mark Taylor decide di provare questo nuovo plugin. Looppa due barre di Believe e lo prova. Il Setting zero è quella cosa che rende istantaneamente la voce di Cher intonatissima in modo algoritmico, freddo, robotico. Sembra il vocoder, ma un vocoder non è. Decidono di condire questa canzone di sopravvivenza-alla-fine-di-un-amore con l’Autotune a palla, anche se hanno paura della reazione di Cher. Dopo qualche birra, però, decidono di fargliela sentire. Cher impazzisce, e tutti festeggiano. Dickins, quando sente il brano, da buon discografico, è abbastanza inorridito, e chiede però di togliere l’effetto. Per lui è troppo. Cher gli risponde che dovrà passare sul suo corpo, che la canzone rimane com’è, e il rough mix diventa la versione definitiva del pezzo. Una nota a margine: quando il pezzo raggiunge la #1 in Uk (dove rimarrà per sette settimane in vetta) Dickins chiama Rawling e gli comunica la buona notizia: «Siamo primi in classifica, anche se lo special ancora non mi convince…»
Potremmo parlare ore di come, ancora oggi, il pezzo suoni fresco e innovativo, nonostante il suono dell’Autotune sia ormai assolutamente dappertutto, dalla trap ai dischi di nuovi crooner come Bublè.
È che ci sono dei passaggi, per esempio quell’iniziale «I can’t break through» nella prima strofa, in cui la voce di Cher si spezza, diventa robotica per la prima volta nella storia della musica in modo udibile e voluto e allo stesso tempo è estremamente emotiva.
Aggiungiamoci che, come avevamo visto in più casi — vedi Midge Ure con Breathe — certi pezzi venivano aiutati nella loro popolarizzazione dagli spot in tv: Believe è uno di questi. Vi presento il 1999, vi presento Megan Gale, vi presento l’Italia di fine secolo scorso. Iconica la canzone, iconico lo spot.
ALTRE COSE
A proposito di Autotune e legacy e eredità varie di un pezzo come Believe: per riuscire a redigere un elenco semi-esaustivo necessiteremmo di giornate più lunghe e esistenze pressoché infinite — ma sicuramente possiamo provare a tracciare una linea guida più o meno vaga sugli anni a venire in qualche tappa.
Negli anni 2000 T-Pain, rapper americano, sente un remix di Jennifer Lopez in cui l’Autotune viene messo a zero per qualche secondo, s’invaghisce dell’effetto, decide di cercarlo — e dopo un anno e mezzo trova il plugin craccato. Lo rende il suo signature sound, e per qualche anno spacca le classifiche Usa. Viene deriso da tutti, ma la realtà è che è un fottuto pioniere.
Qui, la hit club Buy U A Drank.
Succedono svariate cose, il successo di T-Pain procede, poi si sgonfia, finché a rendere definitivamente cool nel mainstream l’effetto arriva il re del futuro con ogni disco che fa: Kanye West. Il suo 808s & Heartbreak è un disco minimal e confessionale e seminale, in cui il rapper si mette a nudo e abbandona il personaggio da maschio alfa per elaborare il lutto della morte della madre. Heartless è un gran pezzo di musica e d’arte, come quasi tutto quello che fa(ceva) Kanye West finché si limita a fare cose in ambito musicale.
Se poi volete sapere altre e ulteriori evoluzioni moderne dell’Autotune: accendete la radio.
ALTRE (ULTIME) COSE
Siamo giunti alla fine delle canzoni Numeri Uno del 1998. Siete tristi? Felici? Sollevati? Niente paura: il 1999, dando una rapida occhiata, ci regalerà cose incredibili. Nel frattempo Numeri Uno si prende una pausa, ma mica di quelle pause estive che si prendono tutti — da queste parti è proprio quando ci si dovrebbe rilassare che si trova la motivazione per fare altre cose (un esempio? Queste stesse righe vengono digitate alle 6:48 mentre preparo il latte alla mia bambina che oggi oggi compie cinquanta giorni).
È una pausa dalle pubblicazioni di Numero Uno
Se vi siete persi qualche post di Numero Uno, trovate l’elenco completo — e in costante aggiornamento — QUI.
LE PAGELLONE
Believe è un 10.
I Got You Babe è un 6.
If I Could Turn Back Time è un 6.
I Don’t Wanna Miss A Thing è un 10.
Breathe è un 10.
Buy U A Drank è un 6.
Heartless è un 10.