Numeri Uno è la rubrichetta che si occupa di tutte le canzoni che sono finite alla prima posizione della classifica italiana dei singoli. È la cugina di quella americana di Tom Breihan, che è la cugina di quella inglese di Tom Ewing.
Sarò onesto, perché l’onesta è quello che realmente ci distingue dagli animali: non vedevo l’ora di questo momento. Manca pochissimo alla fine delle chart del 1998, e abbiamo davanti degli anni di musica incredibile.
Dell’imbecillità del music business, specialmente per quanto riguarda la rilevazione e le regole delle chart, potremmo parlare per decenni. La cosa più incredibile è come per colpa di certe regole bizzarre o di strategie che qualcuno avrà creduto scaltrissime ci siano canzoni che passano alla storia la cui vita nelle chart sia stata pressoché inesistente. È quello che succede a Iris nella classifica Billboard, che si è sempre contraddistinta per avere delle regole assurde, e che all’epoca non consentiva l’ingresso in classifica a canzoni di cui non si vendesse il cd singolo. Questo, in teoria; in pratica, la canzone che per diciotto settimane fu la più suonata dalle radio — record a oggi imbattuto — non è mai stata prima in Usa.
Ma prima, un passo indietro.
Nel 1995 i Goo Goo Dolls pensano di aver raggiunto l’apice del loro successo con il singolo Name: il pezzo è una dipartita abbastanza netta dal loro usuale suono post-punk, infarcito di chitarre acustiche e impreziosito da un testo generazionale. Ma la canzone è così forte che raggiunge le vette delle classifiche radio americane dedicate al rock, e diventa un crossover anche nelle radio più pop.
Entri in scena il personaggio #1 di questa storia. Nel 1997 il singer-songwriter col cognome che preferisco al mondo, cioè John Rzeznik, leader della band, è depresso: il suo matrimonio è finito a pezzi. Vive in un hotel, e le cose non vanno granché bene. (Dico che è il cognome che preferisco al mondo perché io e mio fratello, da piccoli, dopo aver letto il suo nome sul cd singolo e successivamente nei crediti dell’album avremo detto Rzeznik sette miliardi di volte. Per dire come si svoltavano i pomeriggi nel 1998).
Entri in scena il personaggio #2 di questa storia.
Rob Cavallo è uno storico produttore con una storia incredibile: parte da intern, stagista, della Warner Bros nel 1987 e nel 2010 arriverà a esserne il presidente; la sua svolta accade quando, nel 1993, dopo anni in cui si è fatto strada ma non ha ancora beccato il cavallo vincente, prerequisito fondamentale per poter navigare le acque torbide della discografia americana degli anni 90, una delle band che ha scovato e firmato, i californiani Green Day, gli chiedono se vuole essere lui a produrre il loro disco d’esordio su major, faccenda delicatissima per una punk band che viene dal circuito indipendente. Cavallo suona, sa mettere le mani sul mixer, ha gran gusto e conosce tutte le canzoni dei Beatles sulla chitarra: alla band pare una scelta incredibile puntare su di lui piuttosto che su un produttore rinomato. Il disco che ne esce è Dookie, e chi non conosce i Green Day oggi chissà dove ha vissuto negli ultimi trent’anni. Arriva il 1997 e Bob Cavallo, suo padre, che è co-produttore del film City Of Angels, decide di coinvolgere dei musicisti per la colonna sonora. Bob coinvolge Alanis Morissette, Rob i Goo Goo Dolls. Rzeznik va a vedere un’anteprima del film, e il film gli fa schifo. Torna a casa ma decide comunque di scrivere il pezzo: nella colonna sonora ci sono gli U2 e Peter Gabriel, e vuole poter dire a suo figlio, un giorno, che papà è stato nello stesso disco di quegli eroi. Quindi accorda una chitarra con due corde mancanti in modo bizzarro, un po’ come aveva fatto con Name, che ha un tuning tutto suo, e inizia a strimpellare, a scrivere, senza pensarci su più di tanto. (In realtà, racconterà anni dopo, si ispirerà più a Il cielo sopra Berlino, film dal quale probabilmente è stata presa l’idea di City Of Angels, un’altra sorta di Pinocchio al contrario: l’angelo vuole diventare umano). Solitamente il processo creativo lo dilania, ma in questo caso è come se la canzone prendesse vita da sola. (È un tipo di espressione che tendo a detestare, quando chiunque dice che certe canzoni si scrivono da sole, eccetera, perpetrando un illusorio mito che alcune idee vengano dal cielo già formate, pronte e impacchettate, consegnate come i pacchi Amazon dalla divina signora dell’ispirazione; la realtà è che le migliaia e migliaia di ore passate gobbi su una chitarra a strimpellare e scrivere a volte si tramutano in un assoluto nulla di fatto, a volte in schifezze atomiche, a volte in capolavori — ma non esiste nessuna dea della creatività: solo il risultato del culo che ci si è fatti). Rzeznik si dice sorpreso che Cage, nel film, decida di rinunciare alla propria immortalità per amore di un’umana, anche se l’umana è pur sempre Meg Ryan, e comincia da lì. «I’d give up forever to touch you» è l’incipit che spiazza e spezza. È contestualizzato col film, ma espandibile a qualunque altro tipo di storia d’amore, che è quello che tende a succedere ai testi delle canzoni che si rivelano immortali. Comunque: scrive il pezzo, non sa che titolo dargli perché è l’ultima cosa a cui pensa, apre una rivista, ci trova il nome della cantante country Iris DeMent e decide che Iris è un titolo perfetto.
Telefona a Rob Cavallo, glielo fa sentire via telefono, Rob decide di produrlo.
La band si trova in studio e lavora il demo di Rzeznik per giorni (sono anni in cui le canzoni si fanno col tempo che serve: settimane, anche, sia perché da sempre si realizzano facendo un gran lavoro di fino sulla strumentazione, sia perché la tecnologia non è ancora così avanzata da garantire a chiunque di abbaiare in un microfono per venti minuti e, grazie a degli algoritmi che incroceremo presto in classifica, renderle delle tracce vocali perfette. Ma comunque.) Come dicevo in altre occasioni di brani che hanno sfiorato la Top 10 italiana, ci sono pezzi il cui assolo è così bello che è cantabile. Iris ovviamente ne possiede uno. La leggenda narra così (anzi, lo narra Tim Pierce stesso nel video qui sotto, proprio insieme a Rob Cavallo — e Tim Pierce è forse il chitarrista da studio più forte di tutti): Pierce viene chiamato da un ingegnere del suono, assistente di Cavallo; entra in studio per suonare il mandolino, perché è stato chiamato per quello, e invece si presenta con amplificatori, pedaliere, chitarre elettriche e quant’altro. Sapendo che i Goo erano una band rock, aveva deciso di farsi trovare pronto. (Nel video si sente anche il demo presto da Rzeznik, rudimentale ma efficace). Pierce suona sì il mandolino, a fianco delle migliaia di dollari di strumentazione che si è portato dietro. Registra tutto, anzi, inventa e registra tutto quasi al primo colpo. Il mandolino è registrato in tre take; e quando la band gli chiede se vuole provare a mettere un assolo sulla parte strumentale, Pierce dà il meglio di sé. (Sto pensando a un assolo più perfetto, come spazi, come intervalli di note, come pathos, come cantabilità: onestamente non me ne viene in mente uno).
La scelta di usare lo slide per l’assolo è semplicissima: Pierce sa che i Goo sono una band che viene dal punk, e quindi l’assolo non dev’essere un ammasso di note velocissime da sboroni; dev’essere facilmente riproducibile e cantabile. Ci riesce, eccome.
Successivamente, essendo pur sempre Hollywood, viene registrata un’orchestra: è la prima volta che i Dolls utilizzano un’orchestra, e il conduttore e orchestratore è David Campbell, padre i Beck.
Iris non è il brano di punta della colonna sonora, ma ha una magia che non può passare inosservata: le radio iniziano a suonarlo, e la colonna sonora inizia a vendere come non mai. Il brano viene nominato a 3 Grammy, di cui nessuno vinto. Ma che te ne fai di un Grammy quando hai scritto un pezzo di storia?
Il video alterna immagini del film a Rzeznik che fa il guardone, e va bene così. (Allego una notevole esecuzione live con Rzeznik totalmente fradicio: poesia al massimo).
Iris, cosa non scontata per l’epoca, piace così tanto alla band che viene inclusa nel — e finisce, una volta fuori, inevitabilmente per trascinarlo — sesto album della band, Dizzy Up the Girl. Un disco riuscitissimo, che contiene almeno altre quattro perle: il secondo singolo Slide, l’acustica Acoustic#3, la tompettyana Broadway e il terzo singolo Black Balloon. È un album riuscitissimo, nonostante rappresenti la definitiva virata dal power-pop e dal post-grunge che aveva caratterizzato la band fino ad Iris.
ALTRE COSE
Ci sarebbero sì dei pezzi che sono stati ampiamente influenzati da Iris, rilasciati negli anni successivi, che per un motivo o per un altro non esisterebbero senza di lei. Volevo postarli, ma poi mi sono chiesto se fosse proprio necessario inserire i Tokio Hotel e Avril Lavigne in un post su una canzone così devastante, mi sono risposto di no, e per quanto non veda l’ora dell’arrivo della stagione di Trl per commentare le classifiche di quegli anni, essendo quasi alla fine di quest’annata di trionfi di canzoni legate a dei film, da Dion agli Aerosmith, posso solo dire: lunga vita al 1998.
LE PAGELLONE
Name è un 7.
Iris è un 10.
Slide è un 10.
Acoustic#3 è un 8.
Broadway è un 7.
Black Balloon è un 8.