Numeri Uno è la rubrichetta che si occupa di tutte le canzoni che sono finite alla prima posizione della classifica italiana dei singoli, senza discriminazioni ma con effettivo buon gusto. È la cugina di quella americana di Tom Breihan, che è la cugina di quella inglese di Tom Ewing.
Se mai gli Oasis dovessero smettere di bisticciare via Twitter come i ragazzini che sono, perdonarsi e rimettersi insieme, in quella che sarebbe indubbiamente la più bella reunion degli ultimi trent’anni, ecco, se in quel tour clamoroso che attualmente esiste solo nelle nostre teste non dovessero suonare All Around The World, nessuno si lamenterebbe.
Che non vuol dire sia una brutta canzone, anche perché difficilmente quello che usciva dalla penna di Noel Gallagher negli anni 90 era brutto; solo che non è né tra le migliori del loro repertorio e né tra le migliori di Be Here Now. E, soprattutto, ha quel difetto che tendevano ad avere le canzoni degli Oasis in questi tempi: è FOTTUTAMENTE LUNGA.
La fan base gigantesca raggiunta grazie al capolavoro What’s The Story Morning Glory? aveva fatto sì che, oltre a diventare la rock’n’roll band più famosa del mondo, gli Oasis avessero conquistato una fan base così vasta che pure in paesi come l’Italia ogni loro nuova uscita finiva alla #1 in classifica. È quello che succede nel 1997 a D'you Know What I Mean?, l’arrogante primo singolo di Be Here Now, il terzo attesissimo album della band di Manchester. E quello che qualche mese dopo accade a All Around The World, che debutta al primo posto della classifica dei singoli. Be Here Now è, però, anche il disco che determina la fine della Fase Imperiale dei fratelli Gallagher, e l’inizio di una serie di album sconnessi e esponenzialmente sempre più noiosi e privi dei colpi di tacco di cui Noel, il songwriter della band, si era dimostrato abilissimo negli album precedenti.
Diciamo che lo si intuisce dalle lunghezze dei brani. La versione album conta 9 minuti; quella singolo (o meglio, del video) 7. Basterebbero i primi cinque minuti, a essere gentili, senza tutta quella coda inutile e beatlesiana da cokehead che non si sanno proprio contenere. È difficile riempire tutti quei minuti con cose interessanti, e nonostante gli anni 90 abbiano un grandissimo vantaggio su chi ascolta musica (non esiste l’uso massiccio di internet, quindi la gente è ancora dotata di quella faccenda ormai incredibilmente rara che è il dono di una soglia dell’attenzione abbastanza alta) è comunque una richiesta di tempo che, se non sei quello sul palco ma quello sotto, è leggermente esagerata.
La cocaina dà, la cocaina toglie, del resto. È risaputo che Be Here Now è un disco che suona come una grande pippata proprio perché composto e registrato in un periodo storico in cui la bianca era un po’ il sesto membro della band. Qui, Noel e compagni si lanciano in una sorta di tributo a Hey Jude neanche troppo velato (notoriamente uno dei più irritanti brani esistenti dei Beatles — non guardatemi così, qualcuno doveva pur dirlo); ed è, forse, contemporaneamente proprio questa una delle prime volte in cui il BritPop inizia a dimostrare propri limiti compositivi. Arriveranno le conferme col disco successivo, ma ce ne occuperemo a tempo debito: la fanbase italiana degli Oasis non ci darà modo di non parlare di altri pezzi della band. Ma qui, ora, nel 1998, ci si accorge che forse il genere ha dato tanto, troppo, tutto, e l’ha dato alla grande, negli anni in cui Oasis e Blur se le sono date di santa ragione, senza dimenticare i Verve, i Radiohead.
Così le strofe, prima di quell’infinita faccenda dei na-na-na che tanto funziona nei festival quanto tedia sui dischi, sono decisamente la parte migliore del pezzo, col quartetto d’archi che va a richiamare arrangiamenti e atmosfere di uno dei Piccoli Capolavori della Fase Imperiale della band: Whatever, singolo uscito successivamente all’album d’esordio Definitely Maybe.
(Scusate, nel frattempo mi è partita una lacrimuccia: lo shuffle di Spotify mi ha fatto partire Don’t Look Back in Anger: altro tentativo di rifare una beatlesata, in quel caso Imagine, ma con che risultati. Altro che Piccoli Capolavori.)
Non c’è nessuna visione in All Around The World, che non è un dovere, ma da una band che sta sulla vetta del mondo — e che ha dimostrato di saperlo fare — ci si sarebbe potuti aspettare qualcosa del genere.
C’è anche da dire una cosa, però, sul perché un brano già incluso in un album che tutti i fan s’erano fiondati a acquistare all’uscita riesce comunque ad agguantare la Numero Uno in classifica. Gli Oasis — consuetudine degli anni 90, in cui la band mancuniana eccelleva — riempivano i loro singoli di b-side. I b-side, beati voi della gen z, erano brani inediti che non stavano sui dischi, ergo, altra roba della vostra band preferita, ergo, devo comprare il singolo per sentirle. In più, mettiamoci che gli Oasis erano fenomenali nei b-side. Così fenomenali che nel dicembre 1998 uscirà The Masterplan, una raccolta dei loro migliori b-side, contenente alcune delle canzoni più splendide mai composte da Noel Gallagher. (Tocca fare una selezione, ma eccone tre su tutte: Acquiesce, Talk tonight, The Masterplan).
È legale avere così tanti b-side clamorosi? Non so. Sicuramente un catalogo del genere giustifica anche dischi meno riusciti, come la critica si affrettò a recensire Be Here Now (ignorando il fatto che, non tanto grazie alla prospettiva dei dischi successivi quanto al buon gusto, l’album conteneva due pezzi oggettivamente mondiali: Stand By Me e Don’t Go Away).
Sicuramente uno dei meriti più grandi di All Around The World è sicuramente quella di aver ispirato (e non poco, anzi: c’è un avvocato in sala?) un pezzo devastante della carriera di Robbie Williams. Ci stiamo portando leggermente avanti, ma pur sempre di 1998 si tratta: Strong è il terzo singolo di I’ve Been Expecting You, il cui primo singolo, Millennium, comparirà brevemente nelle chart italiane — non arrivando però alla Numero Uno, perché siamo fondamentalmente un popolo di stronzi, anche se poi rinsaviremo.
Strong è un capolavoro, nonché una delle prime volte in cui si intravede al cento per cento il potenziale di Williams come penna diabolica: scritta in un hotel in Germania, Strong altro non è che una scusa per fare branding in un’epoca in cui il branding lo si faceva con le Belle Canzoni: gigantesca dose di autoironia e genio competitivo. «And that’s a good line to take it to the bridge» — «E questa è una grande frase per arrivare al pre-ritornello» — è pura meta-canzone, Williams distrugge la quarta parete, fa gli occhiolini al pubblico, gioca con il songwriting mentre racconta che la sua vita è cool, ok, ma è solitaria, piena di vizi, di incomprensioni. È così che si fanno le canzoni per le grandi folle: strofe personali e ritornelli per tutti.
LE PAGELLONE:
All Around The World è un 8.
D’You Know What I Mean è un 8.
Whatever è un 10.
Don’t Look Back in Anger è un 10.
Imagine è a malincuore un 8.
Hey Jude è un 6.
Acquiesce è un 9.
Talk tonight è un 10.
The Masterplan è un 10.
Stand By Me è un 10.
Don’t Go Away è un 10.
Strong è un 10.
Millennium è un 10.
(Non sono io largo di manica: è che il Regno Unito stava, a livello di songwriting, in una forma eccezionale negli anni 90, e nessuno lo può negar).
Per me è un 10 anche D’you know what I mean, ma sono troppo di parte 😀
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