Che faccenda straordinaria la musica pop.
Il pop, quando è fatto bene, non ha pretese, non ha velleità, non ha nessun altra mira se non quella di farti stare bene, farti dimenticare tutto, lasciare il caos che sovrasta quest’esistenza bizzarra fuori dalla porta, fosse anche per solo quattro miseri minuti (negli anni novanta; per tre miseri minuti negli anni duemila, e infine per due e mezzo negli anni venti).
Io amo il pop ben fatto. Forse anche per questioni nostalgiche, ma è forse possibile giudicare la musica senza nostalgia? Non credo. E scrivo d’amare il pop mentre (ri)ascolto Speak Now (Taylor’s Version), perché la timeline in cui rivisito le canzoni del 1997 e ne scrivo, numero uno dopo numero uno, è quella in cui Taylor Swift è la cantante donna più famosa al mondo — e in modo trasversale, sì, anche più di Beyoncé, perché Taytay prende teenager e donne adulte allo stesso modo — e pure gli Amanti Della Musica Pop Fatta Bene, maschi cis bianchi e altre sigle moderne, insomma, serenamente eterosessuali come me. Anche se noi amanti del Pop Fatto bene siamo una razza nascosta. Da sempre, ma oggi più che mai. Forse era più facile quando c’erano icone come Micheal Jackson, mi dico a volte, ma poi mi rendo conto che in realtà ogni epoca ha la sua difficoltà nell’essere un fan di quella parolaccia che è la Musica Pop. Toccherebbe quasi fare coming out, certe volte, visto come si mettono certe conversazioni sulla musica, da quanto è una brutta cosa amare Il Pop. Il pop non è mai stato cool, e in una società composta da gente che non fa altro che cercare di inserirsi, di non restare ai margini, di appartenere a qualche contesto che socialmente gli regali qualche sicurezza in più (e li elevi) fa abbastanza ridere. È un discorso complesso, quello del pop; in questo caso, Speak Now è solo una scusa in più per ampliare il discorso su quanto Il Bel Pop sia una cosa incredibile, facente parte di un insieme di circostanze complicatissime da vedere comparire tutte insieme: tempismo, qualità, significato, la dose perfetta tra buon gusto e innovazione e allo stesso tempo tra tradizione e familiarità vestite da novità; eppure, anzi, proprio per questo, quando accade c’è una magia difficile da ritrovare altrove. A volte il pop può sembrare noioso, ma le cose che lo potrebbero rendere palloso sono le stesse che lo rendono efficace.
(Parentesi obbligatoria: che cazzo di disco è Speak Now? Com’è possibile che qualcuno non ritenga Swift una songwriter pazzesca avendo ascoltato anche solo distrattamente un album del genere, totalmente scritto e composto da sola? Ci vorrebbe gente estremamente ottusa per contestarne il talento. Speak Now è il miglior disco di Taylor Swift — sì, anche migliore di 1989 — per un motivo semplicissimo: il fottuto songwriting. Swift è un'autrice che ha, negli anni, affrontato la scrittura country, pop e indie alla stessa maniera: in modo impeccabile. Riascoltandolo dopo anni non ha perso un briciolo della sua immediatezza, della sua forza compositiva e del suo valore. Resta un disco pressoché perfetto, nella sua urgenza post-adolescenziale, e uno di quei rari album le cui prime 6 canzoni sono realmente impeccabili.)
Insomma, ci vuole coraggio a amare il pop in un mondo come questo, in cui la critica ama detestare ciò che è popolare, ora come sempre. Qualunque cosa sia popolare è sempre vista come becera, inutile, vuota, perché se piace a un sacco di gente — specialmente ai teenager — e il mondo è sovrappopolato da imbecilli allora figuriamoci se la musica che gli piace può essere decente o ben fatta. È così? A volte. Non sempre. Con la musica pop, poi, è tutto molto più sottile. Intanto, come diceva Chuck Klostermann in Eating the Dinosaur, solo i teenager possono essere la migliore lente di lettura dei fenomeni pop. Del resto, è musica che parla a loro: che cazzo dovrebbe mai saperne e capirne un quarantenne di quello che deve o non deve piacere ai giovani, di quello che vivono o provano, non essendolo più da vent’anni?
Uno degli esercizi di tutto questo riguardare le Numero Uno del passato e vedere, a distanza di vent’anni, che ne è stato di queste canzoni al di là delle infatuazioni dell’epoca degli acquirenti di musica sta proprio nel vedere la potenza di certo pop a distanza di anni. Così il 1997 si conclude con un capolavoro, dicevamo. Un Gran Pezzo, estremamente pop. Non Pop-per-i-ragazzi, ma abbiamo visto che nel 1997 sono più i Giovani Adulti a comprare i dischi, tipo quelli dei Depeche Mode, degli U2, di Bon Jovi.
Dove Breathe vince su quasi tutte le altre Numero Uno del 1997 è che è pop senza vergogna di esserlo, cosa che a onor del vero accadeva spesso negli anni novanta. E se oggi, negli anni venti, si tende a mascherare il pop per renderlo cool perché da qualche tempo ormai ciò che è pop è immediatamente visto come sinonimo di kitsch o trash, e quindi tocca camuffarlo con stratagemmi da autori mestieranti, all’epoca si può dire che sulla maggior parte dei progetti si pensava probabilmente più a fare buone canzoni e meno a tutto il lato marketing.
Chi è Midge Ure in breve? Ha un passato in cui ha militato in gruppi, di cui uno di successo (è stato il leader degli Ultravox); ha scritto brani di grande riscontro come Do They Know It’s Christmas Time e Fade To Grey; e con «grande riscontro» s’intende una Siae mica male. Breathe è il suo quarto disco solista: esce dopo due anni di lavorazione, ma nessuno se ne accorge.
È quello che ai tempi nostri si dichiarerebbe senza mezzi termini un flop: non vende.
Due anni dopo, il miracolo.
La Swatch la inserisce come brano della colonna sonora del nuovo spot, e il pezzo esplode (in Europa). È il grande lascito di certe pubblicità anni novanta: unire del gran marketing ai sentimenti e metterci in sottofondo una Bella Canzone. (Negli anni novanta è facile: è pieno di Belle Canzoni). Non è la prima e non sarà l’ultima volta, anzi: negli anni a venire vedremo svariate canzoni (un’altra sempre nello spot della Swatch, altre negli spot delle compagnie telefoniche) finire al #1 grazie a questa mossa. Nell’epoca pre-internet, del resto, radio e tv erano i modi migliori di promuovere un pezzo e spedirlo nelle case della gente.
È debitore alla World Music — infatti l’album omonimo è pieno di strumenti tipici della Gran Bretagna, tributo alla Madre Patria essendo Midge Ure scozzese — e lo è in anni in cui alcuni episodi di World Music arrivano in modo rocambolesco o bizzarro in classifica, con degli exploit impensabili, semplicemente grazie alla loro bellezza. (Un esempio su tutti: sempre nella seconda metà del 1997, prima nella classifica degli album staziona per più settimane Enya, la cui raccolta Paint The Sky With Stars - the best of Enya vende più di mezzo milione di copie. Che significa disco di diamante, per capirci).
Breathe è un oggettivo gioiellino, e ha quello che tanti pezzi che raggiungono la vetta delle classifiche non hanno: un grandissimo carico emotivo. Non è un caso se, nei commenti sul pezzo in giro per il web, spesso si parla della sua funzione salvifica e calmante. Perché Breathe è un atto di gentilezza, uno squarcio di sole nella tempesta, l’innocenza, una carezza vellutata. È uno di quei pezzi che, se chiedete a me, si scrivono solo quando la mano del dio della creatività ti si posa sulla spalla e ti grazia con una sessione di scrittura divina.
Con le quattro settimane in vetta (due a novembre, due a dicembre) di Breathe il 1997 è finito — o meglio: finirà con l'ennesima settimana al #1 di Elton John, proprio come inizierà il 1998 (ALTRE QUATTRO SETTIMANE DI Candle In The Wind: l’Italia ci ha evidentemente messo molto più del Regno Unito per elaborare il lutto di Lady D? Chissà).
Il resto del 1998, però, ci aspetta. E sarà un anno pieno di grandi canzoni.
LE PAGELLONE
Breathe è un 10.
Only Time è un 9.
Candle In The Wind è un 6.