Numeri Uno è la rubrichetta che si occupa di tutte le canzoni che sono finite alla prima posizione della classifica italiana dei singoli. È la cugina di quella americana di Tom Breihan, che è la cugina di quella inglese di Tom Ewing.
Il problema perenne delle classifiche è che rispecchiano le vendite, e le vendite non sempre rispecchiano quello che nel 2023 definiremmo il percepito. In più, non sono sempre un’indicazione affidabile dell’apporto culturale di un pezzo, o come e quanto una canzone riesce a entrare nella vita quotidiana delle persone, nelle conversazioni e nel gergo. È un problema nella misura in cui uno prende le chart come metro di riferimento socio-culturale di un’epoca e poi ci trova cose che per un motivo o per un altro — vedi: una fan base gigantesca che si fionda in massa a comprare l’ultima uscita del proprio idolo; uno spot tv martellante e/o ben riuscito; una ben precisa strategia discografica — sorpassano brani che finiscono per vivere più a lungo. Analizzando le classifiche dei singoli dell’estate 1998 salta all’occhio una atto imperdonabile: la totale assenza di Vasco Rossi.
Nel 1998 uscì con l’album Canzoni Per Me. Se vi va di farvi una risata pensando al volume delle vendite — pardon, degli streaming — odierno, fu il quinto disco più venduto dell’anno con 800.000 — avete letto giusto: quinto, ottocentomila — copie vendute; vinse il Premio Tenco e il Premio Lunezia, ma soprattuto il Festivalbar, e senza cassa dritta. Ma con un gran pezzo.
Non mi ritengo una bimba di Vasco, e passato il periodo adolescenzial-ribelle in cui ripudiavo pressoché qualunque cosa fosse associata ai Mostri Sacri Italiani perché credevo, in modo imbecille, che solo l’America fosse in grado di darmi quello che cercavo, mi sono reso conto che è impossibile non essergli riconoscenti. Per farlo, è doverosa una gran dose d’onestà nel giudizio. Perché un certo tipo di talento, anzi: quel tipo di talento, rappresentato dalla precisione geometrica con cui Rossi scriveva e performava, non è discutibile. Negli anni 90, per quanto a memoria la gente provasse già giusto nel lamentarsi dicendo che Vasco scriveva «sempre la stessa canzone» (e non c’era internet, figuratevi solo se), il poeta di Zocca ci ha regalato grandi cose. Io No, che è la prima che incrociamo su questa timeline, è quella con cui vince il Festivalbar, e rientra di diritto tra queste.
(In piena post-adolescenza, mentre mi ero parcheggiato a un’università che frequentavo mal volentieri, ho lavorato per una sottospecie di giornale. (Avrei fatto di tutto pur di non dover dare certi esami, persino lavorare). Quello che ci faceva da caporedattore ma anche da fratello maggiore, da padre e da Virgilio nel mondo degli adulti, un giorno ci prese e ci fece una lectio magistralis su quante cose avevano in comune Vasco Rossi e Nietzsche: avrei tanto voluto registrarla, perché sono certo che se venisse trasmessa nelle scuole gli studenti si spaccherebbero la schiena sulle pagine di filosofia tanto quanto affollano i concerti del Blasco.)
Io No è un pezzo soft-rock condito da chitarroni e introdotto da un riff d’archi quasi beethoveniano. È tutto sommato corto per gli standard dell’epoca (3 minuti e 38), è un pezzo adulto, narrato da un Vasco maturo — anche se ho sempre riscontrato una certa maturità, o comunque una visione già ben precisa nel Vasco degli esordi. Avesse una cartella stampa oggi, questa sicuramente sottolineerebbe la narrativa incentrata su un amore estremamente tossico. (Un giorno conteremo le canzoni che parlano di amori finiti e in cui l’interlocutore non sembri tossico, per aderenza alla realtà o per necessità narrativa: le nostre dita rimarranno ferme, e le mani rimarranno vuote.) «Quando penso a come / alla fine mi hai ridotto tu» è uno di quegli incipit che, se non fosse parte del catalogo di Vasco, rappresenterebbe con grande probabilità una delle vette massime della produzione di chiunque altro. È che la semplicità delle parole di Rossi è pari alla sua efficacia: ti arriva il suo dolore, ti arriva la sua speranza, ti arriva il suo dire basta. C’è della precisione chirurgica anche nel video, in bianco e nero, in cui Vasco s’aggira per la città, come un vagabondo — anzi: «Come un cane quando non c'è più / Non c'è più il padrone» — in sofferenza tra le coppiette innamorate che lo circondano. Una delle cose migliori, a livello di songwriting, è che quel «Io no, io no, io no» ti dà l’illusione di essere il ritornello, malinconico, fragile, sommesso, finché dopo un paio di minuti (impensabile per la velocità della musica odierna) Vasco esplode con quell’«Io non! ti a! spe! tto! più!, yeeeeee» che appena lo senti capisci perché il Festivalbar nel 1998 è stato suo.
E perché non compare nelle classifiche, allora? Perché sono anni in cui le strategie discografiche hanno la meglio — e, stando ai risultati, strategie giuste. Ottocentomila copie di dischi li vendi se l’unico modo di beccare uno dei pezzi dell’estate, se non IL pezzo italiano dell’estate, è quello di comprare tutto l’album. Questo non frena Io No dall’essere un pezzo simbolo del 1998; solo dall’essere totalmente assente dalla classifica singoli, e quindi favorire l’ascesa di chi, invece, il singolo lo fa uscire.
E quindi, prego: entri in scena Claudio Baglioni, secondo e ultimo italiano che riesce a raggiungere la vetta della chart nel 1998 dopo Renato Zero. Vista da qui la motivazione mi sembra esclusivamente economica: noi ragazzetti, gli adolescenti, e pure qualcuno degli universitari campavamo di mancette; per quanto si vendessero milioni di copie negli anni 90, altrettante venivano mosse dal mercato del tarocco. (Chi non c’era non può sapere il brividino che ti compariva sulla schiena se, da adolescente amante della musica, quando stavi in spiaggia in un paesino sperduto vedevi comparire Quello Coi Cd Masterizzati: era come vedere arrivare un amico). Registrando le vendite ufficiali il quadro è ben chiaro: i giovani compravano i singoli, perché quelle diecimila lire erano il massimo che si potevano permettere di spendere; gli adulti, forse anche per una questione di legame al formato o agli artisti, si potevano fiondare sugli album.
Ora, vendendo al pezzo: presente quando su Paperissima mostrano i video di, chessò, due pattinatori che fanno numeri assurdi e tu guardi, perché guardi, sapendo che finirà male — anzi, proprio sapendo che finirà male e che sarà un disastro guardi, proprio per capire fino a quanto in là si spingerà la faccenda? Forse avrà un nome in tedesco, ché i tedeschi hanno sempre un nome per tutto; fatto sta che è più o meno quello che è scaturito dentro me mentre ascoltavo Da Me A Te di Claudio Baglioni.
La storia narra così: c’erano i mondiali di calcio, alla nazionale mancava un inno, la FIGC compiva cent’anni tondi tondi, quindi il presidente FIGC decise che Claudio era l’uomo giusto per la missione. Calcio e musica sono da sempre allacciati, uniti in un abbraccio largo come la carriera di Nick Hornby, anche nei casi più impensabili e imprevedibili, tipo le canzoni d’amore dei Savage Garden che diventano inni degli hooligans.
La storia della nazionale italiana vanta grandi canzoni che le sono state appiccicate addosso, specialmente in tempi moderni; senza andare troppo in là col futuro, come non citare Notti Magiche del mondiale di Italia 90.
Aprirei ottocento parentesi su Edoardo Bennato, se potessi, e non solo per andare a delirare sulla sua discografia, ma soprattutto per non dover parlare di questa maledetta canzone. Da Me A Te, purtroppo, non è Notti Magiche. E non è neanche La Copa De La Vida, che a tutti gli effetti è La Canzone Dei Mondiali di Francia 1998. Una cosa che è: è un brano di Baglioni, di un Baglioni stanco e meno efficace rispetto a quello che ha fatto la storia; non mancano le modulazioni, ma sono accompagnate da una drum machine di stampo americano perché, hey, la gente deve capire che siamo negli anni 90.
Questo è il video incriminato: bambini che giocano a calcio, immagini della nazionale, un Baglioni bellissimo e tutto-di-bianco-vestito, genitori che tifano e qualche anziano messo lì per commuovere; altre immagini di calcio, un prete che sventola il Corriere della Sera, dei contadini, eccetera eccetera. È una sorta di spot Barilla director’s cut, un elogio all’Italia che uno sceneggiatore di Boris definirebbe molto italiano. Prima che mi diate del cinico: mia figlia è nata quaranta giorni fa e sono quaranta giorni che piango per qualsiasi cosa, da quando mi griffa le magliette col suo Vomitino Santo a quando le metto su Masha e Orso per calmarla; ciononostante ho trovato assolutamente tediosa questa accoppiata di canzone + video.
ALTRE COSE
In classifica, oltre a Ricky Martin, gironzolano intorno a Baglioni: Renato Zero, stavolta con Cercami; i Lighthouse Family con High; i Savage Garden; la fu #1 Madonna, ma stavolta non con Frozen bensì Ray Of Light; ma soprattutto la prossima detestabilissima numero 1 che incroceremo.
LE PAGELLONE
Io No è un 9.
Notti Magiche è un 7.
Da Me A Te è un 1.
Cercami è un 9.
High è un 10.
Frozen è un 10.
Ray Of Light è un 7.